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Recensione

27 anni, sesto (sostanzialmente) elogiato lungometraggio.

Con un’innata capacità di rielaborare in chiave raffinata il cinema popolare, il canadese Xavier Dolan è indubitabilmente uno degli autori più apprezzati del panorama internazionale odierno.

Rifacendosi a un testo – visibilmente – teatrale del francese Jean-Luc Lagarce (1957-1995), il giovane cineasta inscena un classico ritorno a casa, nel qual caso di Louis (Ulliel, da noi famoso soprattutto per Hannibal Lecter – Le origini del male), che ha fatto fortuna proprio grazie al palcoscenico e che da ben 12 anni non vede sua madre (una truccatissima Baye) e i suoi fratelli, ovvero la minore Suzanne (l’intrigante Seydoux) – che quasi non conosce – e il maggiore Antoine (un intrattabile ed eccessivo Cassel), che frattanto si è sposato con Catherine (un’esitante e ricettiva Cotillard).

L’occasione non è delle migliori: deve comunicare loro che sta per morire. Inevitabilmente in serrati confronti “uno contro uno” emergono le tensioni che probabilmente contribuirono alla fuga dell’ospite (difficile stabilire quanto gradito), e fra tante parole (spesso urlate) forse è meglio privilegiare (al pari di un traguardo) il non detto.

Dettagli come l’incipit con il bambino sull’aereo, i furtivi flashback o il cuculo impazzito impreziosiscono questo dramma da camera, che all’inizio può lasciare freddi ma è in grado di insinuarsi fra le emozioni dello spettatore senza farsi notare.

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Max Marmotta