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Recensione

Prima il manga di Shirow Masamune, poi l’anime del 1995 di Mamoru Oshii (che ha generato seguiti e ramificazioni tv): il regista Sanders (Biancaneve e il cacciatore) ha decisamente messo le mani su un mito, non solo nipponico.

Come se l’è cavata? Visivamente bene, grazie ai suoi collaboratori.

Le scenografie di Jan Roelfs rendono credibili le geometrie degli ambienti (riconducibili a un futuro non lontano), sia esterni – con maestosi paesaggi urbani – sia interni; i costumi di Kurt and Bart sono inappuntabili e le immagini di Jess Hall avvolgono a dovere le numerose scene d’azione; per non parlare dei minuziosi effetti speciali.

Eppure la trama, riscritta da Jamie Moss, William Wheeler ed Ehren Kruger, con la poliziotta cibernetica (cervello umano e corpo meccanico) Johansson – dopo Lucy e Under the Skin, chi altri? – alle prese con un’indagine sul pernicioso controllo del settore robotico che si fa dolorosa presa di coscienza delle proprie origini (pure la sua premurosa creatrice Binoche ha pesanti responsabilità), oltre a diventare il solito, necessario monito sui risvolti negativi dell’espansione tecnologica, risulta un po’ fredda, non coinvolgente quanto dovrebbe essere.

Nel cast, a parte l’inespressivo – per contratto – Kitano (già in trasferta con Johnny Mnemonic), che parla solo giapponese, segnaliamo l’efficace Asbæk di The Great Wall e Ben-Hur, un “composto” Michael Pitt e, non accreditato, Michael Wincott.

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Max Marmotta