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Recensione

Un vetro infranto ci introduce a un peccato originale (che ricadrà su uomo e Stato) e al plot in sé. Apertura addirittura kubrickiana per un’opera che disattende i canoni del biopic, più prossima alla completa rielaborazione – quindi volutamente lacunosa su fatti e personaggi (nel congruo prologo del congresso si menziona Pertini, poi si scorge un trait d’union con Berlusconi; nulla di più) – che alla realtà, alla quale si legano invece pensieri e dichiarazioni. Sovviene Zeffirelli prima di Bellocchio, benché affiorino elementi dei Taviani (c’è pure il compianto Antonutti) e di Sorrentino; anche perché il protagonista Favino (fresco interprete di Buscetta, altro scomparso nel 2000 con tanti segreti rimasti tali), al di là del sorprendente make-up, riproduce meticolosamente voce e gesti di Bettino Craxi, peraltro mai nominato (si parla del Presidente, tutt’al più di C.), durante la latitanza nella sua villa tunisina negli ultimi mesi di vita, mentre in Italia era condannato in contumacia due volte per tangenti. Nel suo prevedibilmente discusso lavoro, non certo assolutorio, Gianni Amelio (aiutato dal co-sceneggiatore de La tenerezza Alberto Taraglio) dota l’ex-premier di palese, inarrestabile, patologica ingordigia – conscio che ciò lo condurrà alla tomba (il diabete lo consuma e, significativamente, vuol conservare l’arto incancrenito) – nel corso dei dialoghi con un deputato inquisito (democristiano?) che gli fa visita (Carpentieri) e soprattutto con Fausto (Filippi), misterioso figlio (armato) d’un collega di partito (Giuseppe Cederna) – suicida poiché idealista e connivente al contempo –, un giovane quasi fantasmatico, materializzazione (destinata a irreversibile pazzia?) di cattiva coscienza. 

Rancoroso, persuaso che ci si accanisca, in un sistema marcio, solo sul suo disciolto partito, l’agonizzante politico, cultore di Garibaldi (nella finzione, laddove congiunti e amante incarnata da Gerini sono anonimi, la devota figlia è ribattezzata Anita) e perciò convinto d’essere un “(anti)eroe dei due mondi ferito a una gamba costretto all’esilio su suolo tunisino”, è umanizzato nel rapporto con il nipotino e nella pretesa di farsi cogliere (e tramandare) in affettati momenti di commozione o generosità, in una fase in cui di fotografi in giro non ce ne sono più (al massimo ci s’imbatte in turisti infuriati). Acuti incubi finali, con l’infermo Craxi deriso pubblicamente da Olcese & Margiotta (il popolo non si cura di votare meglio, gli basta ridere). Osservazioni conclusive: un paio di chiuse forzate e lucide scelte paratestuali (canzoni e film: Là dove scende il fiume, Le catene della colpa, Secondo amore). 

Max Marmotta