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Recensione

Avventure caratterizzate da un coraggio al limite dell’incoscienza, rettitudine morale dettata da un codice antico e non scritto, amori tormentati, intrighi di corte, corruzione politica e religiosa, romanzo di formazione: la leggenda dell’eroe secentesco spagnolo Alatriste (un finto capitano) è questo e molto di più.

Marcato dal volto inconfondibile e idoneo di Viggo Mortensen (difficile immaginare altri possibili contendenti al ruolo) e diretto con mano sorprendentemente ferma da Agustín Díaz Yanes (se si considera il suo incerto precedente Nessuna notizia da Dio, idea discreta ma sprecata, connotata da una pluralità linguistica che il doppiaggio italiano stoltamente annullò), il film non lesina sulle debolezze del protagonista, sia nell’educazione del pupillo Íñigo (Unax Unalde), figlio di un fedele compagno d’arme perito in battaglia, sia in campo sentimentale, sia nel risparmiare un nemico, esaltandone così il lato umano, ben più importante dell’aura mitica che già aleggia lungo l’intera narrazione.

È un fatto che tale respiro da saga vada a pesare forse eccessivamente sulla durata complessiva della pellicola; però si tratta di un’opera così caparbiamente démodée da suscitare innata simpatia, che sfocia spesso in una benevolenza capace di minimizzare i difetti.

Fondamentale il cast di contorno, che assembla alcuni fra i più bei nomi della cinematografia iberica contemporanea (l’affascinante Gil, il tenebroso Noriega, il viscido Cámara) e regala un ottimo ruolo al nostro Lo Verso, fisicamente perfetto per incarnare il gaglioffo italiano (palermitano, per la precisione) ma, ahilui, “ingentilito” da una voce (la sua) non esattamente adatta a un duro.

Costosissimo rispetto a una normale produzione spagnola, Il destino di un guerriero è stato comunque ripagato da cospicui incassi in patria.

Max Marmotta