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Recensione

Al netto del vibrante documentario Crossing the Bridge, ridando uno sguardo ai film arrivati in Italia di Fatih Akin, valido cineasta tedesco di origini saracene, troviamo lucidi drammi transetnici come La sposa turca e Ai confini del paradiso, ma anche Soul Kitchen, solare dimostrazione che un approccio più lieve alle medesime tematiche è possibile.

Tuttavia Il padre (titolo originale: The Cut, ossia il brusco “taglio” fisico e allegorico subito dal protagonista) costituisce la chiusura di una trilogia (“L’Amore, la Morte e il Diavolo”) avviata dai primi due titoli, dunque la leggerezza non è contemplata.

Le quasi due ore e venti di proiezione non sono un handicap, però il lineare approccio scelto dal regista ridimensiona alquanto le aspettative già dalle prime battute.

Motore della trama è il genocidio armeno, perpetrato cent’anni fa dagli Ottomani: una piaga storica tuttora dolente.

Il fabbro cristiano Nazaret (Rahim, attore di bella presenza e di discontinua bravura) è costretto ad arruolarsi – o meglio, a diventare uno schiavo – dall’inviso esercito nazionale.

Condannato a lunghi lavori forzati, perde simbolicamente l’uso della parola (raffigurando il mutismo di un popolo) e non ha più notizie della moglie e delle figlie gemelle.

Lo aspetta un duraturo viaggio per il globo, fatto di numerosi incontri (e parlato in tante lingue, bellamente ignorate dal doppiaggio con la scusa dell’afonia dell’uomo), nella speranza di riabbracciare almeno qualcuna di loro.

Ancora un’odissea, ancora l’irriducibile crudeltà umana.

Max Marmotta