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Recensione

Quattro lungometraggi in diciassette anni. Lo Sean Penn regista si distingue senz’altro per la sua parsimonia, derivante dall’accurata scelta dei soggetti da trasporre sul grande schermo.

L’odissea (vera, raccontata nel libro di Jon Krakauer) del giovane Christopher McCandless, che una volta laureatosi decise di allontanarsi dalla famiglia benestante e incapace (a parte la solidale sorella) di comprendere le sue reali necessità e si tuffò nella natura, nella quale sopravvisse con sempre maggiori difficoltà tra il 1990 e il 1992, da un lato si prestava particolarmente a diventare un film, dall’altra rischiava di diventare una sterile e magari semi-spettacolre biografia.

Fortunatamente il cineasta ha saputo dosare alla perfezione – per l’ammirazione che si è guadagnato sul campo sarebbe stato più preoccupante il contrario – gli elementi, dando adeguato spazio ai numerosi, variegati, rappresentativi incontri di Chris (nel frattempo ribattezzatosi Alexander Supertramp) ma dedicandosi prevalentemente a luoghi e paesaggi attraversati dal protagonista, resi nella loro spontanea poesia e inviolabilità, non per finire in una serie di cartoline.

Lo spirito libero e curioso del personaggio principale (incarnato da un inappuntabile Emile Hirsch, alla sua migliore occasione), un idealista che aborrisce il denaro e concepisce la caccia unicamente per il proprio sostentamento, ci conduce fra monti, fiumi e campi di inusitata bellezza, pronto a lenire il suo sdegnoso rifiuto della società degli uomini diventando tutt’uno con il creato, che accoglie chi ascolta i suoi ritmi eppure non permette disattenzioni.

Una vicenda ricostruita seguendo un ordine cronologico inframmezzato da flashback e flashforward, che ci rivelano secondo una progressione drammatica da prendere come esempio il passato e la fase conclusiva dell’avventura di Chris.

Max Marmotta