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Recensione

La messinscena iperbolica di John Wick (2014) aveva funzionato nel contesto arrancante dei revenge movies? Allora si rilancia: con Stahelski di nuovo alla regia (David Leitch, non accreditato dietro la mdp la scorsa volta, qui è solo produttore) e un granitico Reeves sul set (la sua carriera necessitava di un personaggio iconico), ecco a noi altre gesta del killer vedovo dal tignoso istinto di sopravvivenza al quale ammazzarono il cane e rubarono l’auto.

Un fulminante incipit (con il godibile Stormare) completa la sanguinosa azione del primo film; poi, siccome l’antieroe, come da tradizione, non può sottrarsi al passato, un suo pretenzioso garante (Scamarcio in divertita trasferta) gli bussa alla porta reclamando un favore (che gli spetta secondo l’assurdo codice dell’esclusivo club di assassini che già conosciamo): vuole uccisa la sorella (Gerini), prossima a un’improbabile “incoronazione” criminale a Roma.

Ubbidire – controvoglia – non significa metter fine ai guai (l’ambiente è quello che è).

Pronto a ulteriori sequel, il thriller sfoggia idee dinamiche (il montaggio parallelo delle visite ai basisti italiani o quello degli attacchi dei cacciatori di taglie) ma richiede – più che nel precedente – una volenterosa sospensione dell’incredulità.

Analogamente il ricco cast impone delle distinzioni (essenziali il ritrovato McShane, Common e l’attivissima Rose, decorativi Fishburne, Nero, i riconfermati Leguizamo e Moynahan).

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Max Marmotta