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Recensione

Da sempre accompagnato, in veste di co-produttore, dal fedelissimo fratello Antonio (il quale ammette di aver praticato pochissimo la regia perché “bisogna scegliere”), Pupi Avati, jazzista mancato (è il suo eterno cruccio) e cineasta fra i più quotati e prolifici nel panorama italiano, al di là del livello di riuscita delle sue opere (fino a qualche tempo fa l’alternanza dei risultati era quasi scientifica), ha senz’altro due meriti alquanto singolari: la sapiente costruzione dei cast, composti, a seconda dei casi, lungo la sua quasi quarantennale carriera, da attori-feticcio (Delle Piane, Cavina), interpreti stranieri (Franciosa, Furlong), comici “riciclati” in ruoli del tutto diversi dal solito (Boldi, Marcorè), giovani acerbe scoperte (Novecento, Leonardi), bei nomi momentaneamente appartati (Tognazzi, Dorelli), tutti prima o poi riproposti (segno, probabilmente, che con lui si lavora bene) e mescolati in alchimie perlopiù felici; e, non meno importante, l’inesauribile voglia di rispolverare i generi (thriller, brillante, dramma, avventura), con un occhio costante ai rapporti umani (in effetti, è una riconoscibile traccia stilistica), per venire incontro ai gusti delle platee e magari adattarli ad un tocco d’autore, mediando (intenzione assolutamente dichiarata), creando una via di mezzo che non nuoccia a nessuna “fazione”.

Il sottotitolo del suo ultimo film La cena per farli conoscere (penultimo, per essere precisi, dato che il mystery anglofono The Hideout è pronto) recita, tra parentesi, Commedia sentimentale: un sussurro mascalzone che vorrebbe già indirizzare lo spettatore nelle zone della risata intenerita.

In verità, il protagonista Sandro Lanza (Diego Abatantuono, alla quinta collaborazione con il cineasta e per una volta indubitabilmente in forma), relitto del mondo dello spettacolo lanciato dai B-movies e approdato alla peggior televisione odierna nell’illusoria e mai estinta attesa della grande occasione, ci conduce nei dintorni del sorriso malinconico.

Con una figlia in Francia, Ines (Inés Sastre), una in Spagna, Clara (Vanessa Incontrada), e una in Italia ad assistere ai suoi fallimenti, Betty (Violante Placido), ognuna avuta da una compagna differente, il nostro è il simbolo vivente dello smembramento affettivo, dell’incapacità di coesione e coerenza per eccessivo egoismo, un uomo-disastro il cui ruolo vitale verrà fuori forse tardivamente, ma non troppo, e al quale la variegata progenie prova a fornire un’occasione di innamoramento, o per l’esattezza di riscatto, attraverso una sgangherata cena con ospite inaspettatamente sciroccata, vale a dire la letterata Alma (Francesca Neri).

Il nucleo pulsante della trama non è, come potrebbe sembrare, il patetico “patriarca”, in realtà veicolo di gustose e precise frecciate al mondo dei vip, bensì il terzetto di infelici eredi, insicure per nascita e poco accorte – o semplicemente sfortunate – nella scelta degli amori (quando non ammalate).

Il loro rinnovato legame, le complicità non automaticamente insite nel loro DNA sono l’elemento più bello (insieme all’immaginaria e straordinaria filmografia di Sandro che scorre sul fotogramma finale) dell’intero lungometraggio, ad essere sinceri calante nella seconda parte e connotato da scene non sempre equilibrate, se rapportate al tono generale (dunque, la serie positiva e qualitativamente quasi inappuntabile di Avati iniziata nel 1999 con La via degli angeli e proseguita per altre cinque fatiche si è interrotta, peccato).

Una solidarietà, anzi una sorellanza né banale né banalizzata, attentamente descritta, non nuova ma porta con garbo, che reca un’atmosfera conciliatoria risolutamente necessaria pure per il pubblico, compenetratosi nelle vicende delle graziose signore e perciò spontaneamente portato alla simpatia nei loro riguardi.

Il punto di vista, palesemente, non è femminile; però è la spia di una spontanea e rispettosa curiosità verso le donne, il cui esito, confrontato a tanti tentativi consimili impressi per moda su pellicola da un decennio in qua, è assai dignitoso.

Max Marmotta