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Recensione

Dopo l’inedito (nelle sale italiane, sulla pay-tv è già un cult) Sympathy for Mr. Vengeance e dopo Old Boy, Park chiude la sua trilogia sulla vendetta con questo fuoco d’artificio, baciato dalla bellezza apparentemente indifesa, ma capace di determinata freddezza, di Lee Young-ae, che presta il suo – come viene sottolineato – luminoso volto alla “dolce” Geum-ja (il soprannome fa pure da titolo originale), imprigionata per l’omicidio di un bambino e decisa, una volta riguadagnata la libertà a distanza di tredici anni, ad ottenere un cruento risarcimento dal vero responsabile, un suo ex-professore dal quale si era rifugiata quando era incinta che non si fece scrupoli a plagiarla con il ricatto.

La violenza è abbastanza concettuale (sebbene le scene grandguignolesche non manchino), ed è lo strumento di cui si serve il film per dimostrare, come è ormai consuetudine nell’autore, quanto possano rivelarsi vacui i lambiccati propositi rancorosi della protagonista, quanto il suo piano di equa suddivisione della torta (ritorna l’idea del “dolce”) lasci sostanzialmente insoddisfatti, vuoti gli “avventori” della pasticceria dove lavora per un comprensivo padrone giapponese.

Un percorso visionario, elegante, senza veri colpi di scena ma irto di trovate lugubremente divertenti (per esempio l’interpretazione simultanea verso l’inglese, precisa e tranquilla, del “condannato”, sotto la minaccia dell’arma della sua vittima/aguzzina che desidera comunicare con la figlioletta australiana naturalizzata), duro nelle scene carcerarie, in cui di ogni detenuta viene abbozzata la storia, mai troppo compiaciuto delle sue scivolate nel grottesco: in effetti, l’ultima parte presenta quasi un cambio tragicomico di registro, che è l’autentica, imprevista, irregolare svolta nella trama.

Max Marmotta