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Recensione

Il famigerato affaire Dreyfus, scoppiato a fine Ottocento in seno all’organizzazione militare francese con una crescente eco nazionale e internazionale, ha un enorme peso storico in Europa, poiché alimentò vergognosi sentimenti di antisemitismo (che purtroppo perdurano) e contribuì a creare una spaccatura politica tra innocentisti e colpevolisti riconducibile a quella che intercorre tra le sinistre e le destre odierne. Roman Polanski (che fa una composta comparsata) ricostruisce lucidamente – e attraverso una confezione impressionante per impiego di mezzi (l’opposto dei suoi prediletti drammi da camera), basti pensare ai costumi di Pascaline Chavanne – una vicenda processuale in cui forse (impropriamente) si riconosce. Il capitano Alfred Dreyfus (interpretato da un addolorato ma orgoglioso Louis Garrel, quasi irriconoscibile) nel 1894 fu accusato di essere una spia dei nemici tedeschi e di conseguenza fu degradato, pubblicamente umiliato ed esiliato. Al suo caso, in apparenza chiuso, s’interessò il tenente colonnello Georges Picquart (al quale aveva regalato già un biopic Ken Russell nel 1991, Prigionieri dell’onore), assegnato ai servizi segreti e presto capace di dimostrare il grave errore giudiziario. 

Polanski presenta Picquart (nella cui divisa si cala perfettamente Jean Dujardin) come un uomo integro – 

benché intrattenga una relazione clandestina con Pauline (l’immancabile Emmanuelle Seigner), moglie dell’amico Philippe (Luca Barbareschi, fra i produttori) –  fedele ai suoi ideali di ricerca della verità e all’esercito, tuttavia antipatico, ostile agli ebrei. Ciononostante, il suo scopo è riabilitare a qualsiasi costo (malgrado intimidazioni, arresti, aggressioni) la vittima di un sopruso, insabbiato ignominiosamente e con supremo sprezzo della dignità (creando pure false prove), per comodità, per arroganza (dei generali) e per non dover rendere conto all’opinione pubblica di una frettolosa svista; senza contare che il vero traditore, facilmente individuato dall’osteggiato inquirente, stava continuando ad agire indisturbato. 

Un’opera magnificamente realizzata, straordinariamente attuale (sul bieco potere che influenza e ottunde), corale, con tantissimi volti noti: da Mathieu Amalric, presuntuoso grafologo, a Grégory Gadebois, infingardo maggiore, da Melvil Poupaud, tenace avvocato (a proposito: perché nessuno lo nomina più dopo la sua uscita di scena?) a Vincent Pérez, onesto sostenitore, fino ad André Marcon, alias lo scrittore Émile Zola, autore della nota invettiva contro il sistema J’accuse (non per nulla titolo originale del film); e fra gli altri si riconoscono Podalydès, Vuillermoz, Yordanoff.

Max Marmotta