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Recensione

Un progetto covato per 25 anni da un regista visionario quale è Gilliam merita spasmodica curiosità.

Partendo dalla figura e dalle gesta del suggestionabile cavaliere creato da Cervantes (fra gli attori che dovevano incarnarlo, Jean Rochefort e John Hurt, qui dedicatari) e del suo fido scudiero Sancho (parte rivista per Johnny Depp), con tentativi di lavorazione (nel 2000) funestati da maltempo e problemi di salute (vedere il doc Lost in La Mancha per credere), il cineasta, alla luce di tante sventure aggiuntesi a dispute e problemi finanziari (in cui già incappò Welles per la sua irrealizzata versione) e dopo aver rimaneggiato – in chiave un po’ autobiografica – il copione scritto con Tony Grisoni, imbastisce ora (grazie a una complicata coproduzione internazionale come il cast) una metafora sull’involgarimento dell’arte, sull’inconsapevole smarrimento dei suoi cantori, oggi incapaci di osare e di perdersi nei propri (folli) sogni.

Accade così che un autore pubblicitario (Driver) si ritrovi negli stessi luoghi (in Spagna) dove, da studente, imbracciò per la prima volta una cinepresa, rincontrando pure il calzolaio (Pryce) a cui affidò il ruolo di Chisciotte, dal quale pare non essere uscito più (pazzia – per fortuna – trasmissibile).

Tra apparenti e spiegabili tuffi nel passato e uniformazioni linguistiche, il film si crogiola nelle bizzarrie, fino al calcolato ispessimento finale che irrora di senso l’intera narrazione.

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Max Marmotta