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Recensione

Nel 1997, dopo notevoli successi televisivi e teatrali, l’eterogeneo trio comico formato da Aldo Baglio, Giovanni Storti e Giacomo Poretti approdava in sala con Tre uomini e una gamba. Supportato dal produttore Paolo Guerra, appena scomparso, e dal co-regista Massimo Venier, avrebbe replicato quel quasi inatteso exploit con alterni risultati artistici nei successivi Così è la vita, Chiedimi se sono felice, La leggenda di Al, John e Jack, Tu la conosci Claudia?. In seguito, fatta – relativa – eccezione per il simpatico La banda dei Babbi Natale (peraltro esordio di Genovese senza Miniero), la vena cinematografica sembrava definitivamente esaurita. Perciò non può che essere accolta come una piacevole sorpresa questa nuova commedia, che segna, oltre al ritorno di Venier dietro la macchina da presa (anche sceneggiatore, insieme ai tre protagonisti, Michele Pellegrini e Davide Lantieri), una ritrovata cura per il racconto, rimpolpato e provvisto di adeguata evoluzione nonché di figure di contorno non accessorie. 

Vittime di un disguido (non di una truffa: dettaglio non trascurabile), tre famiglie di varia estrazione si scoprono affittuarie della medesima villetta sul mare in un’amena località pugliese. Ci sono dunque il pigro ipocondriaco (Baglio) con moglie rozza (Maria Di Biase), rampollo adolescente sanzionato (Davide Calgaro) e gemelline (Ilary e Melissa Marzo), il negoziante specializzato (ha ereditato una prestigiosa attività incentrata sugli accessori per calzature) sull’orlo del fallimento (Storti), con coniuge (Carlotta Natoli) e figlia (Sabrina Martina) stufe di lui, e il dentista benestante (Poretti) con consorte insofferente (Lucia Mascino) e figliastro distaccato (Edoardo Vaino). Per l’equivoco organizzativo sembrano non esserci rimedi, e i tre (diversamente prepotenti) gruppi da principio non accettano la situazione; poi, vista l’effettiva disponibilità di spazio da suddividere, tentano il compromesso, dando progressivamente origine a un di base impensabile esempio di convivenza civile. Naturalmente non mancano inciampi, bugie, incomprensioni, inconvenienti, superati tuttavia dalla volontà di venirsi incontro. Ed emerge un’amicizia, anzi una complicità tanto improbabile (per i tempi in cui si forma) quanto salda. 

Si passa dalle (efficaci!) occasioni di divertimento (con autocitazione e cenni a Moretti e Verdone) alla commozione (volendo, prima del previsto), le digressioni sono contenute, le partecipazioni sapide (su Citran, De Ruggieri, Brandi, Ragusa e Ranieri as himself svetta il “pragmatico” maresciallo di Michele Placido). Ce n’è abbastanza per sbilanciarsi: il miglior film della “ditta”. 

Max Marmotta