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Recensione

Radiografia di una frattura generazionale probabilmente insanabile, sguardo desolato sull’assenza di prospettive, vertigine sull’abissale svuotamento dei valori: l’esordio, bello e crudele, dietro la macchina da presa di Bonifacio Angius, ambientato in un sassarese senza orizzonti, è tutto questo e qualcosa in più.

È anzitutto la storia di un anziano padre da poco vedovo (Mario Olivieri) che si sbraccia per trovare un’occupazione al figlio trentacinquenne (Stefano Deffenu), nullafacente (le giornate le spende al bar con amici poco di buono) e al limite della catatonia.

Quest’ultimo, di nome Angelo, subisce l’ansia genitoriale con piatta insofferenza, smosso solo dall’attenzione per una ragazza.

Una triste svolta mette in risalto la definitiva aridità del giovane, dirigendosi verso un finale che si ferma un attimo prima di – per dire – Pietro di Gaglianone (sconvolgendo di più, se possibile).

Nel frattempo, il regista ci ha illustrato con impressionante lucidità un sistema di pensiero (quello paterno) tanto antiquato quanto inefficace, (auto)umiliante e dannoso, conseguenza di un senso di responsabilità tardivo e incapace di recuperare il tempo (formativo) perduto.

Pregnante l’“inserto” elettorale.

Max Marmotta