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Recensione

Valerio Mieli torna un decennio dopo il pregevole – e dunque profeticoDieci inverni.

L’idea centrale resta quella proposta da Tavarelli in Un amore (1999): fotografare la relazione di due persone attraverso il tempo.

Come per i film citati, è uno di quei (rari) casi in cui si può affermare che la forma è il contenuto.

Infatti, se la precedente opera del regista mostrava l’evoluzione (o l’involuzione) d’un sentimento attraverso momenti scelti, qui si gioca da subito con la – diversa e all’occorrenza fallace – rappresentazione della memoria, a seconda di indole e umori mutevoli.

Non per niente questi personaggi universali, una ragazza e un ragazzo privi di nome, “s’incrociano”: la cupezza di lui, destinata ad alleviarsi, cozza con la giovialità di lei, poi invece indurita dalle esperienze.

Gli ambienti e la fotografia di Daria D’Antonio trasmettono ancor più degli spontanei e astratti dialoghi gli stati d’animo dei protagonisti (gli infallibili Caridi e Marinelli), alloggiati in una casa rustica (già dimora del giovanotto) che finisce con il coincidere con il loro legame.

Ci si perde allora piacevolmente nei meandri dei pensieri e delle reminiscenze (tendenti a divergere) di tale coppia comune, in un linguaggio per immagini quasi sperimentale e di certo rivitalizzante per il cinema italiano.

Il punto interrogativo del titolo contribuisce a specificare che si tratta di un verbo, non di un (blando) sostantivo plurale.

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Max Marmotta