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Trama

New York, 2001. Ruth Weinstein, affranta per la morte del marito, vorrebbe imporre ai figli Hannah e Ben e a tutti familiari di osservare il lutto secondo la rigorosa tradizione ebraica.

Incuriosita e preoccupata da tanta convinzione, Hannah, in procinto di convolare a difficili nozze con il sudamericano Luis (la genitrice disapprova), vuole vederci chiaro.

Appreso dalla sconosciuta cugina Rachel che in tempi di guerra Ruth fu salvata da Lena Fischer, si reca a Berlino per conoscere l’ormai anziana signora.

Con la scusa di essere una ricercatrice storica, la giovane fa raccontare alla disponibile Lena la sua storia, avvenuta nel 1943.

Molte donne ariane, fra le quali la fragile Klara Singer e la testarda Goldberg, subirono l’arresto dei coniugi ebrei, rinchiusi in un sorvegliato edificio sito in Rosenstrasse.

Fra le tante persone blindate, della cui sorte non era dato sapere, pure la madre della piccola e spaurita Ruth, che trovò conforto e protezione nella volitiva e nobile (anche per natali) Lena, privata del consorte Fabian, musicista come lei, e a sua volta sostenuta dal fratello reduce Arthur.

Recensione

È una vicenda realmente accaduta, non c’è bisogno di dirlo. Da questo misconosciuto ed edificante esempio di coraggio manifestatosi negli anni bui, anzi ciechi del nazismo trae spunto von Trotta per ritornare a dirigere dopo una consistente sosta (neanche a farlo apposta, il suo penultimo film per il grande schermo, prima di una duratura parentesi televisiva, era Il lungo silenzio, del 1993, incentrato sulle stragi di mafia).

Il prologo è lento, estenuante, improntato ad un dolore, quello della perdita di un congiunto, che non sente ragioni e non può, indirettamente, non rimandare al periodo bellico vissuto da Ruth.

Hannah è la sua inconscia emissaria e su un piano narrativo causa l’altalena temporale attraverso cui si snoda la pellicola.

La scena con Goebbels, non nominato, è abbastanza esemplificativa dello sciagurato regime che attanagliava la Germania, quando sarebbe bastato un nonnulla ad evitare migliaia di tragedie.

Non c’è alcun dubbio che le attrici, in particolare Katja Riemann (Lena), Coppa Volpi per la sua interpretazione a Venezia, e la sua “versione invecchiata”, peraltro alquanto somigliante, Doris Schade, siano bravissime; il problema, semmai, risiede in qualche sgrammaticatura (controcampi vacui, ingessature stilistiche) che da sempre intacca il cinema dell’autrice teutonica, non ancora paragonabile, per personalità, a Herzog o Fassbinder.

Nel complesso, comunque, si può soprassedere.

Max Marmotta