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Recensione

La prima osservazione nasce spontanea: l’opera quarta della figlia d’arte (quando la parola ha un peso) Sofia Coppola ha una struttura ostentatamente simile (con cenni ulteriormente autobiografici) alla sua seconda, Lost in Translation: albergo lussuoso e dispersivo, rapporto affettivo – stavolta filiale, senza meno – tra un uomo disilluso (Stephen Dorff, proficuamente recuperato dai meandri del B-movie in cui era precipitato occupando prevalentemente ruoli da villain) e una donna più giovane (sì, l’undicenne Elle Fanning, sorellina della più nota Dakota, può essere già definita tale, poiché sfoggia di proposito l’aria di una signorina in fieri), sperperi di tempo che colmano i vuoti interiori e chiarificano le idee sulle nuove direzioni da prendere (se ce ne sono).

Già la scena iniziale (ben più sussurrata della fin troppo eloquente conclusione), che inquadra il protagonista Johnny Marco, annoiato e svogliato attore di successo dedito a pasticche e avventure galanti, sfrecciare in tondo in Ferrari, denota la necessità, percepita attraverso tutto il film, di fermarsi, scrutarsi e, eventualmente, rimettersi in discussione.

L’occasione è fornita dalla sua piccola Cleo, appioppatagli dall’ex-moglie per un periodo indefinito e costretta a seguirlo tra tour promozionali e premiazioni (forse sbrigativa però abbastanza eloquente la sequenza milanese dei Telegatti, con Marini, Ventura, Frassica, Nichetti, Surina a impersonare loro stessi, così come, poco prima, Benicio Del Toro).

Dovendo mordere il freno, Johnny finalmente riflette; magari non è sufficiente per cambiare, eppure s’intende che la vicinanza e le semplici enunciazioni di Cleo gli gioveranno.

Qualche critico incline ai confronti ha sottolineato la differente qualità recitativa di Dorff rispetto a Bill Murray: ma per fortuna che c’è! .

Max Marmotta