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Recensione

Dopo l’americano Posthumous (2014), inedito da noi, la regista orientale emigrata da bambina negli USA Lulu Wang narra una storia assai personale, quasi autobiografica. Protagonista la giovane Billi, sfumata da Awkwafina (al secolo Nora Lum, nata rapper e divenuta attrice dal fascino dimesso e “inconsapevole”, recentemente in Ocean’s 8, Crazy & Rich, Jumanji – The Next Level), nata in Cina e residente a New York, giunta a una fase della vita in cui non si sa bene che direzione prendere, anche a causa di aspirazioni scontrantisi con la dura realtà; crisi identitaria aggravata dai dubbi sulle proprie effettive radici culturali.  Benché i genitori Haiyan (il divo internazionale Tzi Ma) e Lu (Diana Lin) non vogliano (per evitare che manifesti la sua emotività prettamente “occidentale”), decide di seguirli a Changchun, dalla nonna paterna o – si dice laggiù – Nai-Nai (Zhao Shuzhen): a quest’ultima è stato diagnosticato un cancro in fase terminale, ma, secondo la cultura del posto, nessuno deve dirglielo, per farle trascrorrere serenamente le settimane che le restano. Billi ha difficoltà ad accettare un principio per lei assurdo, tuttavia si sforza di condividerlo, imitando i parenti accorsi a loro volta con la scusa del frettoloso matrimonio tra il cugino Hao Hao (Chen Han) e la fidanzata nipponica Aiko (Aoi Mizuhara), entrambi frastornati o addirittura imbalsamati; un’unione derivante dal datato trasferimento del padre dello sposo Haibin (Jiang Yongbo) in Giappone. 

L’anziana, apparentemente inconsapevole però arguta, comunque sorpresa dall’insperata riunione familiare, ricorda, dispensa consigli, non bada troppo alle noie di salute. Malgrado la presa di posizione della trama, se sia giusto o sbagliato tenerle nascosta la verità non è dato sapere (perfino il potenziale contrasto tra il poetico epilogo e la sorridente didascalia finale pare una non-scelta): il film trae linfa dal costante, implicito confronto tra modi vivendi che si traduce in humus per la ricerca interiore, un progresso che magari discenda dalla sintesi delle esperienze maturate da un lato all’altro del pianeta, probabilmente più corroboranti di quelle accumulate dentro il medesimo continente. 

E a proposito di traduzioni: ennesimo caso di ingiustificabile confusione ingenerata dai nostri pavidi adattatori. S’inizia con un annuncio in mandarino (lingua poi doppiata nei dialoghi), si prosegue subito uniformando l’inglese, che poi spunta nella conversazione con il medico. Senza contare che Billi (che non conosce così bene l’idioma degli avi) e i suoi comunicherebbero grazie a esso. Perché, perché tanta paura di qualche sottotitolo in più?

Max Marmotta