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Recensione

Uno dei dubbi che potrebbe suscitare la visione della più recente fatica di Marco Bellocchio, una carriera che, tra alti e bassi, dura da oltre mezzo secolo, riguarda l’effettiva utilità di riprodurre intere fasi processuali, a volte note perché inserite in réportage e documentari sulla mafia. Però il cineasta conosce i vantaggi del mezzo: fra delimitazioni di campo, montaggio e microespressioni degli attori, si può raccontare molto di più che con un’inquadratura fissa televisiva che si avvale solo delle intonazioni degli imputati. Basterebbe questo, la disamina degli scambi spesso feroci tra “uomini d’onore” in aula, a giustificare l’operazione. Che tuttavia, lo dice il titolo, è incentrata su Tommaso Buscetta (reso con tutte le sfumature – dal look cangiante all’accento improbabile di chi, avendo vissuto all’estero e non padroneggiando la lingua per abitudine al dialetto, si sforza di parlare in italiano – da un intenso Favino), affiliato di secondo piano di Cosa Nostra già arrestato ed evaso, rifugiatosi e accasatosi in Brasile e da lì estradato nel 1984, quindi condotto dinanzi al giudice Falcone (impersonato dal misurato Russo Alesi), con il quale collaborò (spiegando parecchi segreti della struttura dell’organizzazione criminale a cui apparteneva) in seguito alla barbara uccisione, anche per mano amica, di molti suoi familiari (compresi due figli). 

La sceneggiatura, scritta dall’autore con Valia Santella, Ludovica Rampoldi e Francesco Piccolo, si serve di disordinati e mirati flashback per analizzare e descrivere la psicologia del protagonista, fra i primi cosiddetti pentiti (chi ricorda l’instant movie di Squitieri del 1985 incentrato su di lui con i nomi cambiati?), senza per questo assolverlo o renderlo simpatico (vedi il simbolico delitto giovanile o le consuetudini carcerarie). Bellocchio, discostandosi da quelli che per lungo tempo sono stati i dettami filmici sul tema (Giuseppe Ferrara ne era un capofila), non aggira le atrocità commesse dai suoi personaggi (in testa Pippo Calò, interpretato da Ferracane al suo meglio), ma trova una via coerente con la propria poetica per narrare una dolorosa pagina di storia italiana. L’impatto emotivo delle ricostruzioni o il pianto della moglie di Vito Schifani sugli schermi di videosorveglianza (scena che comunque si riferisce a un metodo davvero applicato) a tormentare le ignorate coscienze, lo sminuimento subito nel confronto con Andreotti (rappresentante dello Stato…), perfino il punto di vista adottato per la strage di Capaci ne sono l’impronta evidente. 

Lo Cascio è un Contorno dalla parlantina inarrestabile, Pier Giorgio Bellocchio un caposcorta. 

Max Marmotta