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Recensione

Dopo Eros, la Fandango di Domenico Procacci, ormai intenzionata a produrre una pellicola al mese, ritenta l’esperimento dell’opera corale convocando il rigoroso maestro italiano Ermanno Olmi, il padre riconosciuto del cinema iraniano Abbas Kiarostami e il ribelle no-global per eccellenza Ken Loach.

Tre registi, differenti per cultura e stile, uniti dal comune intento di raccontare frammenti di vita, catturati all’interno di un treno che corre dalla Svizzera a Roma.

A bordo, un anziano farmacologo (Delle Piane) cerca di buttare giù una lettera per una giovane responsabile di p.r. (Bruni Tedeschi), di cui si è invaghito. Olmi descrive il suo amore impossibile in un contesto crepuscolare, segnato da venti di guerra e intolleranza, intravedendo comunque la luce in un semplice e coraggioso gesto di solidarietà.

Un amorevole obiettore di coscienza (Trojano), che accompagna la dispotica vedova di un generale (De Santis), sperimenta sulla propria pelle il senso di ribellione che esplode quando gentilezza e disponibilità non sono corrisposte.

Kiarostami, con molta accortezza, lo allontana gradualmente dalla fastidiosa donna per avvicinarlo alla coscienza di sé, tramite un dialogo più volte interrotto con una ragazza compaesana.

Ma giunti sin qui, cioè a circa due terzi del viaggio, non abbiamo trovato altro che manierismo e un’insolita grossolanità.

Per fortuna, salva le apparenze di questo amalgama perfettibile il segmento diretto da Loach, schiavo più del cuore che del cervello.

Elegge infatti a protagonisti tre giovanotti tifosi del Celtic Glasgow in trasferta (Compston, Ruane e Maitland), i quali, a causa di un furto subito, sono costretti al confronto con il dramma contemporaneo dell’immigrazione e a scoprire un’insospettabile coscienza politica.

E anche se non manca il pistolotto retorico, il messaggio di fratellanza dell’autore inglese appare più genuino.

Sax Marmotta