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Recensione

Dopo i complessi puzzle sceneggiatigli da Guillermo Arriaga e il doloroso percorso di Biutiful, il regista messicano Alejandro González Iñárritu alleggerisce relativamente il suo modus narrandi con la vicenda metacinematografica e metateatrale (metà cinematografica e metà teatrale?) di un attore un tempo richiestissimo, famoso per aver interpretato un supereroe (la scelta del quasi eclissato Michael Keaton, Batman della prima ora ultimamente relegato in ruoli marginali, è tutt’altro che casuale), deciso a rimettersi in gioco portando in scena una pièce di Raymond Carver per dimostrare al pubblico e a se stesso il proprio valore d’artista.

Ma l’ingombrante, egocentrica ombra del simbolico uomo-uccello che gli diede la fama lo ossessiona, e in un certo senso anche i suoi poteri (forse immaginati).

L’illusoria direzione che l’ex-divo intraprende è punteggiata dai rapporti che ha con chi lo circonda: una compagna che ha bisogno di lui (Riseborough), un’ex-moglie delusa (Ryan), una figlia sbandata (Stone), un impresario tenace (Galifianakis, finalmente sfruttato in maniera diversa), una collega collaborativa (Watts) e un altro che tende a rubare la scena (Norton, eccezionale).

Sembrano due lunghi piani-sequenza, in realtà i raccordi tra un cambio di scena e l’altro sono volutamente individuabili.

Ciò non sottrae un grammo di tensione alla compattezza del film (tecnicamente impegnativo e strabiliante, in ogni caso), riflessione davvero unica sul mestiere e su un sistema difettoso quanto viscoso, quello hollywoodiano.

Max Marmotta