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Recensione

Bill Murray, fra i comici più bravi emersi nella prima ora del Saturday Night Live (il programma televisivo settimanale che negli USA spopola da trent’anni e in cui sono nati artisticamente John Belushi, Eddie Murphy, Billy Crystal, Steve Martin e tantissimi altri), da qualche interpretazione in qua gioca decisamente di sottrazione.

Intanto, sceglie copioni particolarissimi, da Lost in Translation – L’amore tradotto (in cui dà corpo ad un attore frustrato in trasferta a Tokyo) di Sofia Coppola a I Tenenbaum e Le avventure acquatiche di Steve Zissou (dove è un oceanografo deciso a vendicare un amico) di Wes Anderson.

Adesso, torna a girare per Jarmusch dopo il simpatico “anticipo” regalatoci in uno dei cortometraggi di Coffee and Cigarettes.

Il fatto curioso è che tutti questi titoli non solo non possono essere considerati commedie nel senso più classico (quello, insomma, a cui ci aveva abituati il nostro), anche per via dei loro eccentrici autori, ma Murray sembra incarnare sempre lo stesso personaggio, adombrato, melanconico, piuttosto taciturno.

Sarebbe meglio variare un pochino la prossima volta, ma intanto in questo film, se solo fosse arrivato prima dei sopracitati, Bill – nei panni dell’ex seduttore Don, svogliato, depresso, arricchitosi grazie ai computer e abbrutito nella solitudine (lui che ha avuto e si è lasciato sfuggire tante splendide donne), tacitamente invidioso della normalità familiare del disponibilissimo vicino Winston (Jeffrey Wright), che gli organizza nel dettaglio, di propria iniziativa, un viaggio (nella memoria?) alla ricerca dell’autrice di una lettera anonima nella quale gli è annunciata l’esistenza di un figlio ormai ventenne – meriterebbe un Oscar.

L’unica pecca di un’opera così delicata è la campagna pubblicitaria, che promette, deludendo i più, grasse risate.

Max Marmotta