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Recensione

In attesa di ammirare l’immarcescibile Clint di nuovo – dopo una consistente pausa – davanti alla propria macchina da presa nell’imminente Gran Torino, godiamoci la sua penultima fatica registica (reduce da Cannes): nessun attore commerciale ha saputo riciclarsi nel tempo con altrettanta intelligenza in veste di autore (e compositore), tanto che a ogni lungometraggio si palpa un’accresciuta maturità nell’approccio alla storia nonché un’invidiabile padronanza della cinepresa.

Qui il nostro si serve di uno storico fatto di cronaca (che a quanto pare determinò cambiamenti legislativi importanti) avvenuto a Los Angeles tra il 1928 e il 1935: la scomparsa del piccolo Walter Collins e la conseguente disperata, inesausta ricerca da parte della madre sola Christine (una Angelina Jolie di impressionante aderenza al ruolo), una buona posizione lavorativa (per i tempi) e una bella casa a disposizione.

La polizia ritrovò il frugolo dopo cinque mesi, ma la donna non lo riconobbe, con gravi conseguenze per la sua credibilità, sbriciolata con diabolico calcolo dalle corrotte autorità che non avrebbero mai ammesso un loro errore.

In suo soccorso giunse un pastore protestante, già da tempo in aperto conflitto con la pubblica sicurezza.

I nodi, ben più complessi di quanto apparissero, emersero non senza una certa dose di casualità. La spietatezza con cui il fato si abbatte sugli innocenti è uno dei temi sotterranei prediletti del cinema di Eastwood, che non teme di dilungarsi (e che, rispetto ad altri, può permettersi di confezionare film da due ore e venti senza cedimenti o squilibri).

In fondo, le piccole imperfezioni di stampo “classico” (come la mancata interpellanza dei vicini o l’elettroshock evitato per un pelo) ci ricordano che stiamo pur sempre assistendo a uno spettacolo: se riesce a emozionarci, figuriamoci cos’è la realtà.

Max Marmotta