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Recensione

Ci sono pellicole che al momento della loro realizzazione passano abbastanza inosservate, per diventare in seguito dei veri e propri cult grazie ai successivi passaggi televisivi e alle ormai numerose finestre che offre l’home video. Questo di Harold Ramis – distintosi come attore e sceneggiatore (per Ghostbusters, tanto per dire), qui giunto alla quarta di undici regie cinematografiche, peraltro chiudendo lo iato più lungo della sua (discontinua) filmografia dietro la macchina da presa (il precedente e non memorabile Club Paradise risale a sette anni prima) – non solo costituisce uno dei più eminenti successi a scoppio ritardato che si ricordino, ma si è tramutato in originale paradigma per innumerevoli variazioni sul tema: i “film in loop”, periodicamente (non a caso, verrebbe da dire…) rielaborati nelle forme e nei toni più disparati, dalla fantascienza al thriller (senza contare lo scialbo remake italiano del 2004, È già ieri), sono oggi un genere a sé stante.

La vicenda del cinico e annoiato meteorologo della tv Phil Connors (Bill Murray, eccezionale in un ruolo che sembra tagliato su misura per lui, benché in un primo tempo l’amico Ramis e il co-autore dello script Danny Rubin pare avessero considerato Hanks, Keaton, Martin, Chase e Travolta), inviato controvoglia nella minuscola Punxsutawney, in Pennsylvania, insieme alla neo-produttrice Rita (Andie MacDowell) e al cameraman Larry (Chris Elliott) ad assistere al rituale Giorno della Marmotta (nel quale gli intervenuti sperano che la bestiola, uscendo dalla tana, non veda la sua ombra, segno che la primavera è vicina) e trovatosi, inspiegabilmente (e con sgomento crescente), a rivivere il 2 febbraio in questione (impossibile fuggire dal paesino, sepolto da una tormenta, o adottare soluzioni più drastiche), è diventata nel corso dei decenni percorso narrativo esemplare per rappresentare traumi (personali nonché collettivi), autoanalisi e, auspicabilmente, redenzioni, talvolta azzardando addirittura spiegazioni scientifiche. Così, il senso di tedio del protagonista è amplificato dall’insolita situazione (i cui vantaggi lasciano il posto allo sconforto, quindi sostituito dall’accettazione e poi da una possibile rinascita), l’egoismo cronico si scontra con il riconoscimento (forzato, e forse per l’uomo medio è l’unico modo) di esistenze (ed esigenze) altrui, l’interesse sessuale (per la bella collega) si struttura in un sentimento autentico, per tacere delle abilità artistiche che Phil acquisisce strada facendo.

Ciò che rende preziosa quella che, montando, si è dimostrata – possiamo dirlo – una delle migliori commedie statunitensi di sempre (nonché, in generale, uno dei plots più solidi mai concepiti) è un copione che evita la mera coazione a ripetere le fasi dell’estenuante, eterna giornata dello scostante reporter, legando invece armoniosamente ogni scena, differenziata nelle sfumature e dalle divertenti invenzioni, a dispetto di un impianto ripetitivo. Certo, è anche una scoperta metafora della routine quotidiana che rischia di abbrutire l’individuo; è il motivo della spontaneità di un particolarmente efficace processo di identificazione dello spettatore  con il personaggio principale.

Max Marmotta