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Recensione

Pupi Avati si dedica ancora , con la consueta professionalità mista a nostalgia per la passata giovinezza, alla Bologna dei tempi che furono.

La sua nuova storia abbraccia il periodo che va dalla fine degli anni ’30 alla conclusione dell’ultimo conflitto mondiale, con un epilogo nel 1953, significativamente ambientato in un cinema (nel quale danno Non sparare, baciami!).

Infatti, verso l’inizio, è proprio mentre Michele (un Silvio Orlando così intenso da meritare la Coppa Volpi a Venezia), professore meridionale di disegno, e sua moglie Delia (Francesca Neri, qui assai misurata) sono immersi nel buio di una sala, accompagnati dal vicino di casa e leale amico Sergio (Ezio Greggio, alla sua prima, riuscita prova drammatica), un poliziotto, che la loro unica figlia Giovanna (ruolo difficilissimo reso con estrema sensibilità da Alba Rohrwacher), timida fino al complesso (per circostanziati motivi psichici), si macchia di un delitto.

La realtà viene a galla pian piano, carica di dettagli inquietanti che comportano perfino un’indiretta responsabilità di Michele, e alle inevitabili conseguenze che porteranno i genitori a condotte completamente diverse bisogna aggiungere anche la fase buia del fascismo e la guerra.

Il regista si circonda di elementi a lui familiari (non ultimi, alcuni azzeccati caratteristi di cui si è già avvalso, vedi Edoardo Romano, Chiara Sani, Rita Carlini), e si fa perdonare le eventuali, rade imperfezioni di copione (sebbene la scena della fuga durante la fucilazione rappresenti probabilmente un’allegoria della grazia) regalando allo spettatore emozioni sincere e mettendo eccezionalmente da parte una delle sue tematiche favorite, il tradimento, a beneficio di un’esaltazione della coerenza.

L’episodio dei guanti di Delia, invece, va forse inteso come un paradossale sfoggio in una società alterata.

Max Marmotta