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Trama

Germania, 1944. Presso il campo di sterminio di Teufelwald il maggiore delle SS August Dailermann, in crisi di coscienza, cerca di combattere il tedio e i tormenti interiori, amplificati dalla ferocia di un suo sottoposto, il tenente Tross, attraverso l’ascolto di famose arie d’opera nel lussuoso appartamento a lui riservato.

La giovane e bellissima moglie Franziska, ancora più annoiata e convinta di trovarsi all’interno di una comune e grigia fabbrica, gli rimprovera di aver approfittato della compagnia di alcune domestiche polacche.

Per non dare adito ad altre proteste della consorte, il militare sceglie come nuovo servo personale l’ungherese Miklòs, contrito per la separazione dalla moglie non ancora deportata Julianna, il quale si rivela subito assai colto: infatti, permettendosi di parlare evita che due importanti dipinti ignorati dal suo carceriere vengano distrutti.

In breve, il pover’uomo conquista la fiducia di Franziska con delle vere e proprie lezioni di pittura e letteratura, e insiste che il ritratto che la signora tanto desidera sia commissionato a sette prigionieri, tutti abili con il pennello, nella speranza di salvarli.

Analogamente, il sempre più inquieto August recluta alcuni musicisti fra i detenuti e forma un’orchestra.

Recensione

Munito di un fugace prologo dominato dalla curiosità del figlio di Dailermann (unica traccia di speme), Il servo ungherese soffre di un impianto forse troppo teatrale (le quinte sono il luogo di provenienza di uno dei due registi, Massimo Piesco, all’esordio dietro la cinepresa), consolidato da dialoghi non sempre agili e dallo stile recitativo dell’essenziale cast (in effetti, pare curioso che a dirigerlo ci siano due persone), formato dall’apolide Tomas Arana (Bugie rosse, Il gladiatore), molto bravo e costantemente più somigliante a Christopher Lloyd, la stupenda Chiara Conti (L’ora di religione) e Andrea Renzi (Teatro di guerra, L’uomo in più), incupito dalle esigenze del ruolo del titolo (comunque, merita una citazione pure la gelida follia del Tross di Edoardo Sala).

Girata a Belgrado, la pellicola ci parla della suggestione –non da intendersi alla lettera– dell’arte, arma pacifica che fa breccia nei cuori inariditi e apparentemente impermeabili alla “noia” che trasmette l’altrui cultura (o anche la propria…); la generosa ingenuità di Franziska, tuttavia, non le impedisce a un dato momento di cambiare, di lasciare, all’ora della partenza, il meglio di sé nei tanto anelati quadri, mentre l’inevitabilmente più profondo August, giunto al termine del suo percorso, recupera la coscienza ma non l’anima.

Un dramma oculatamente controllato, sicuramente ridimensionato da un certo compiacimento formale (l’altra firma, Giorgio Molteni, ha realizzato i diversissimi Aurelia e Terrarossa), eppure potente nei contenuti, penetrante negli sviluppi, disperato nelle disamine.

Max Marmotta