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Recensione

Arthur Fleck (Joaquin Phoenix, nato per il ruolo) è un uomo fragile, affetto da problemi neurologici che gli provocano a volte una risata irrefrenabile, scomposta, inquieta, disperata. Fa il clown, tra ingaggi pubblicitari e feste per bambini. Suscita diffidenza, subisce prepotenze. Malgrado difficoltà economiche e sociali, vuol divenire uno stand-up comedian. Vive con la svanita madre (Frances Conroy), che gli ripete che il suo compito è “portare un po’ di gioia nel mondo”; che succede, però, quando la credibilità della genitrice, per vari motivi, si sgretola? Che Arthur inizia a convincersi che, se la sua miserabile esistenza si fonda sulla menzogna o, tutt’al più, sull’immaginazione (ottica in cui s’inserisce il rapporto con la bella e giovane vicina Sophie/Zazie Beetz), allora il medesimo make-up sbavato (una lacrima l’attraversa fin dall’inizio) che gli cela la faccia non servirà a divertire, bensì ad arrecare terrore e morte in un bieco sistema che, per dirne una, nega l’assistenza sanitaria (le stoccate alla politica contemporanea non mancano, benché alcuni indizi – tipo le insegne dei cinema di Gotham – ci dicano che siamo nel 1981). 

Vincitore non scontato del Leone d’Oro, oggetto di accese critiche per i contenuti violenti (ma non assolutori, come pretende qualcuno) e di vari endorsements prestigiosi, il riuscito film di Phillips (sì, proprio quello di Road Trip e la trilogia di Una notte da leoni), incupito dalla sapiente fotografia di Lawrence Sher, lambisce lo stile dei cinecomics (per inciso, l’arrancante DC forse dovrebbe puntare sulla sua nutrita scuderia di bad guys, vedi anche i congrui risultati di Suicide Squad) per distaccarsene, trovare un mood autonomo frugando fra i classici meno concilia(n)ti del tandem Scorsese-De Niro. La presenza di quest’ultimo nei panni del cinico conduttore di talk show Murray Franklin sancisce tale lampante influenza e calca il tema della doppiezza – la gentilezza dietro le quinte svanisce sotto i riflettori – che infesta l’intera trama (si potrebbero aggiungere la reputazione delle prime vittime, le premura del collega che arma la mano del futuro assassino, la rivista natura dell’ammirato Thomas Wayne/Brett Cullen, il significativo stravolgimento – filologicamente parlando – della sua fine). Una ballata sulla temibile degenerazione della marginalità (dove fra simili ci si riconosce) che, al di là dei limiti, odora di pietra miliare. 

Giancarlo Giannini doppiò il Joker di Nicholson; al figlio Adriano spetta dar voce all’incarnazione di Phoenix (dopo aver fatto lo stesso con Ledger): si dia precedenza alla versione originale, però pure la sua è un’ottima prova. 

Max Marmotta