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Recensione

Insieme ad altri autori come Gianfranco Rosi e Roberto Minervini, Pietro Marcello ha contribuito a ridefinire i canoni riconoscibili e riconosciuti del doc contemporaneo. Opere come La bocca del lupo e Bella e perduta (giusto per citare quelle che hanno goduto di una circolazione più adeguata) stanno lì a dimostrare che le barriere tra sceneggiature ponderate e spontanei sguardi sulla realtà sono definitivamente assottigliate, incrinate, crollate; che personaggi ”veri” possono muoversi agevolmente all’interno di un copione che, all’occorrenza, si redige da sé,  flessibilmente, assecondando  imprevisti e perfino eventi tragici, in una commistione alla quale il montaggio dona infine un equilibrio magico. 

Questo nuova fatica del regista casertano, frutto di un liberissimo adattamento dello stesso (con Maurizio Braucci) dall’omonimo romanzo di formazione dello statunitense Jack London (basti notare che alla San Francisco di inizio secolo corrisponde una Napoli calata in un indefinito e in qualche modo minaccioso – perché ripetibile – passato novecentesco, con i nomi anglofoni che si leggono alla lettera), è ufficialmente il suo primo lungometraggio di finzione. Il personaggio centrale è l’eponimo Martin (Luca Marinelli, una garanzia, Coppa Volpi all’ultimo Festival di Venezia), marinaio illetterato che per amore dell’alto-borghese Elena (Jessica Cressy), sorella di un giovanotto da lui salvato da un pestaggio, Arturo (Giustiniano Alpi), che lo introduce alla sua famiglia antropologicamente curiosa ma snob (vedi i genitori interpretati da Elisabetta Valgoi e Pietro Ragusa), si mette a studiare da autodidatta fino a diventare un apprezzato saggista e scrittore, vicino al socialismo e socialmente isolato, osservatore della realtà lucido fino allo sconforto. La sete di sapere (pur esaltata dal plot) lo conduce a un traguardo deludente, ad agi insoddisfacenti, al disprezzo verso il ceto a cui anelava, in un amaro percorso che si fa parabola. 

Un lavoro – nel quale s’incastonano inserti documetaristici stilisticamente suggestivi però non sempre imprescindibili, a ribadire in maniera forse un po’ civettuola la “vocazione” del cineasta – di grande pregio, da promuovere a pieni voti se non  fosse per una porzione conclusiva che accenna segni di stanchezza. Lodevole il cast di contorno: oltre al disilluso pensatore Russ Brissenden di Carlo Cecchi (l’intellettuale di Franco Pinelli che si sgola in piazza ne è quasi un controcanto), si scorgono il meschino cognato – o pseudo-patrigno – Marco Leonardi, il sodale Vincenzo Nemolato, il “rivale” Gaetano Bruno, l’impresario marpione Maurizio Donadoni, la dama Chiara Francini. 

Max Marmotta