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Recensione

Dov’è andato a finire Barry Levinson? Un tempo il regista di Rain Man era un nome di punta a Hollywood.

Di progetti ne ha sbagliati (in numero congruo, anche), ma il recente horror The Bay – sorprendente, se si considera il ristagno del genere nello stanco espediente del found footage – sembrava poterne rilanciare professionalità e quotazioni.

Mentre le distribuzioni nostrane si disinteressano del successivo The Humbling, interpretato da un tale Al Pacino, ecco la sua più recente fatica, l’inverosimile storia di un manager musicale alla canna del gas (il fatto che Bill Murray sia perfetto per la parte non è condizione bastevole al buon esito finale) che accompagna la sua cliente residua (una fugace Deschanel)  in una tournée nella Kabul tormentata dai talebani.

Ritrovatosi solo e senza passaporto, il cinico e opportunista scopritore di talenti s’imbatte in un rude mercenario – un liofilizzato Bruce Willis, che rinuncia perfino a giocare la carta dell’autoironia – e in una prostituta prossima al ritiro ma con il senso degli affari (Kate Hudson), prima di udire la melodiosa voce di un’indigena (Leem Lubany) che, ovviamente, deve tener nascosto il suo dono.

Farla partecipare al (vero) talent show nazionale Afghan Star diventa una missione.

Ispirato alla vicenda della prima cantante che ha sfidato le restrizioni locali osando apparire in tv, il film arranca verso l’annunciato finale, sprecando parecchie potenzialità.

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Max Marmotta