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Recensione

C’è qualche “licenza poetica” nell’ultimo, insinuante Almodóvar. Su tutte, per esempio, una videocamera che filma incomprensibilmente senz’audio, perfino quando la ripresa è ravvicinata (ma è la base di una delle sequenze più gustose dell’intera pellicola); peraltro, continuando su questa linea, chi la utilizza, ovvero Ernesto alias Ray X (Ochandiano), ha proprio l’aria di uno di quei personaggi maledetti che alla fine della fiera rimangono quasi completamente inespressi.

Detto questo, guardando alla carriera del regista nel prezioso decennio che sta per concludersi, l’opera si colloca prima dell’incerto La mala educación e tallona minacciosamente i mirabili Volver, Parla con lei e Tutto su mia madre, non foss’altro per gli amorosi omaggi disseminati cammin facendo (primeggiano, in modi diversi, Viaggio in Italia di Rossellini e L’occhio che uccide di Powell, ma c’è pure un’autocitazione “ambientale” di Donne sull’orlo di una crisi di nervi).

In effetti, Pedro continua a rielaborare il mélo classico, di cui è ghiotto, in chiave personalissima e rigenerandosi di volta in volta, spruzzandolo di grottesco, punteggiandolo di graffiante ironia, inframmezzandolo con paradossali insolenze ed elaborati erotismi, che poi sono una palese cifra stilistica (come le veloci partecipazioni delle “sue” Chus Lampreave e Rossy de Palma).

Anche la trama è un gioco tra realtà e finzione, artifizio narrativo consunto nel quale però l’una giustifica o condiziona l’altra, fino a una fusione carica di significati, dove l’urgenza della composizione e della compiutezza può motivare o addirittura migliorare l’esistenza di un artista.

Che, per la cronaca, è il protagonista Mateo/Harry (Homar), scrittore cieco e addolorato a causa di un incidente.

Il ricordo/proiezione dell’adorata Lena (Cruz, in un carosello di costumi) avvia la sua rinascita.

Max Marmotta